VIOLENZA! UN BUSINESS
Nettuno 9 settembre 2018 di Antonella Rizzo
Quando si parla di violenza sulle donne orientarsi in un ginepraio di proposte e di soluzioni è veramente difficile. Oltre all’intervento diretto sui casi specifici è la sensibilità comune che necessita di un reale cambiamento, oltre alla professionalità consolidata di operatori che hanno dimostrato dei riscontri positivi sul campo. Ho rivolto qualche domanda ad Anna Silvia Angelini, professionista che stimo e con la quale vanto diverse collaborazioni, Presidente A.I.D.E. Nettuno provinciale Lazio e fondatrice dello sportello antiviolenza “Uscita di sicurezza”.
Si parla incessantemente di violenza sulle donne, proprio a causa delle cronache infauste che parlano di un omicidio al giorno. Aumentano i centri antiviolenza, i siti dedicati a questa emergenza. Dall’alto della tua esperienza che conosco personalmente, qual è il tuo parere in proposito?
Mi sorprende vedere come in questi ultimi tre anni siano raddoppiati centri antiviolenza e case rifugio. La cosa mi lascia basita perché la realtà è ben diversa, i giornali riportano notizie discordanti di centri a rischio chiusura. Il problema gravissimo è che in merito a un tema così tragico in molti si improvvisano esperti pur di spartirsi i finanziamenti statali.
Pensi quindi che il moltiplicarsi di questi presidi non sia fisiologico nonostante il numero crescente delle vittime?
Quando si parla di femminicidi, di solito si puntano i fari sul conteggio delle vittime. Poi, passato il clamore legato al singolo caso, i riflettori si spengono ma i numeri rimangono. Alcuni sono meno eclatanti, eppure fanno pensare. Oggi in Italia abbiamo 296 centri antiviolenza e 258 case rifugio. Eppure la realtà della cronaca ci riporta a strutture che vivono con lo spettro della chiusura, anche avendo preso fondi Istituzionali; tutto questo non può passare inosservato.
È vero, come denunciano gli addetti ai lavori, che ha preso piede il cosiddetto “business della violenza” e tanti si improvvisano esperti pur di sedersi al tavolo dei fondi?
Ad aggiudicarsi i soldi sono spesso strutture che si occupano di altro e questi luoghi sicuri hanno cominciato a moltiplicarsi. Sarebbe un fatto positivo, peccato che manchi trasparenza. Nel 2014 la Conferenza Stato-Regioni ha approvato una normativa proprio per definire i centri e regolamentare così la concessione dei fondi del governo: devono essere organizzazioni nate per prevenire e contrastare il problema della violenza contro le donne, o comunque occuparsene in maniera prevalente e devono vantare almeno 5 anni di esperienza nel settore. Nella pratica, però, non è così. Ogni Regione lancia dei bandi per distribuire i finanziamenti e, purtroppo, vi partecipa chiunque. Le istituzioni non verificano la documentazione oppure si accontentano dell’autocertificazione. In questo modo ad aggiudicarsi i soldi sono anche strutture che si occupano di povertà o migranti. Enti validi, ma che non hanno esperienza sul campo.
Qual è la strategia di “Uscita di sicurezza” che gestisci con risultati positivi da qualche anno?
Non basta accogliere una vittima e aiutarla: bisogna stare al suo fianco per anni. Conosco bene la situazione nel Lazio: il problema, in ogni caso, riguarda parecchie altre zone d’Italia. Il governo ha promesso di triplicare i fondi e di passare da 10 a 30 milioni di euro annui totali: ottenere 50.000 euro, la cifra media per struttura, fa gola a molti. E poi ci sono anche i costosissimi corsi di formazione per operatori che vengono proposti da atenei e associazioni e costano anche migliaia di euro. Noi crediamo invece che ci si prepari a questo mestiere sul campo: i nuovi arrivati fanno pratica nei centri antiviolenza ed è un percorso lungo e gratuito. Master e specializzazioni sono i benvenuti ma questi temi si dovrebbero affrontare già negli studi universitari di base. Assistenti sociali, medici, infermieri e avvocati dovrebbero conoscere il fenomeno e saper gestire casi concreti, non solo teorici.
Parlaci delle forze in campo che devono collaborare per il buon esito degli interventi.
Proprio qui che si gioca il cambiamento per un futuro migliore. Serve una rete tra forze dell’ordine, servizi sociali, tribunali e datori di lavoro. Strutture che si improvvisano, operatori poco esperti: se questo è il quadro, anche l’aiuto alle vittime viene messo a rischio. Il problema non riguarda solo i centri antiviolenza, anzi, secondo il Consiglio d’Europa dovrebbe essercene uno ogni 100.000 abitanti e siamo ben lontani da raggiungere questo traguardo. Certamente i dati non possono essere veritieri in quanto tante donne chiedono aiuto a parenti e amici, poliziotti, legali. Quindi, invece di creare confusione serve una rete territoriale e capillare con la partecipazione di tutti gli operatori coinvolti. Lo dice anche la Convenzione di Istanbul, il Trattato contro la violenza di genere approvato dal Consiglio d’Europa: ogni Stato deve mettere a disposizione ogni mezzo per aiutare le vittime, con il supporto anche di forze dell’ordine, servizi sociali, mondo della giustizia e del lavoro, tutti con l’adeguata formazione professionale. Altrimenti continuerà a succedere ciò che è accaduto a tante donne che non ci sono più.
Grazie Anna Silvia, sei un esempio di buone pratiche nel settore della prevenzione e del sostegno al gravoso problema della violenza sulle donne.
In questi luoghi dove transitano il dolore, la rabbia, le solitudini, le paure delle donne maltrattate ma a volte anche delle stesse operatrici, ci sono una vitalità e una grande voglia di cambiamento per un futuro migliore per tutta l’umanità .
Antonella Rizzo
Anna Silvia Angelini, presidente A.I.D.E. Nettuno provinciale Lazio |