La violenza sulle donne, un tema così attuale, eppure così antico.
Gli episodi tramandati dagli storiografi della letteratura latina e le iscrizioni funerarie di età imperiale sembrano le prime pagine dei giornali del nuovo millennio: stalking e femminicidio, corteggiamenti ossessivi e omicidi violenti.
Dall’antica Roma ad oggi non è cambiato niente. La storia della letteratura latina è tempestata di episodi di donne uccise dai loro mariti o costrette al suicidio da circostanze divenute insostenibili.
La storia ci tramanda la vicenda di Ponzia Postumia, una donna vissuta al tempo di Nerone, di cui non si conosce nulla eccetto la tragica morte, avvenuta per mano del tribuno della plebe Ottavio Sagitta, in seguito condannato per omicidio: il senatore costrinse la donna all’adulterio e dopo una “notte che passò in litigi, preghiere, rimproveri, scuse e, in parte effusioni, ad un tratto, quasi fuori di sé, infiammato dalla passione, trafisse col ferro la donna che nulla sospettava”.
E infine, ma non meno eclatante, la brutalità dell’imperatore Nerone, giacché, come riportato da Svetonio nelle Vitae Caesaris, fu responsabile della morte della madre Agrippina.
Se facciamo un passo indietro nella Grecia classica, il mito si rende portatore di quale fosse, effettivamente, la percezione che gli uomini avevano della controparte femminile. La donna non riesce ad uscire dal ruolo di subordinazione alla figura maschile e viene quindi raffigurata come una vittima; il mito di “Medea” sottolinea chiaramente questi aspetti, in aggiunta all’utilitarismo maschile nell’ordine sociale. Se la cultura classica attraverso il mito ci ha proposto una visione della donna succube delle dinamiche sociali maschiliste, il cui eco lo si trova anche nella Bibbia attraverso Eva, autrice del peccato originale, ci fornisce inoltre quello che potrebbe essere evidenziato come il primo “caso di stalking”.
Infatti è il dio Apollo a macchiarsi per primo di questo reato, inseguendo fino alla disperazione la bellissima ninfa Dafne obbligò la madre Gea a trasformarla in una pianta d’alloro, affinchè potesse sottrarsi al supplizio.
In Italia si adopera anche il termine femminicidio, italianizzazione del termine usato nel 1992 da due femministe statunitensi, Jill Radford e Diana Russel, per il titolo del loro libro “Femicide: The politics of woman killing”. E’, questo, un termine per porre fine ad ogni forma di discriminazione e violenza contro le donne in quanto donne, affinchè le donne non debbano più pagare con la loro vita la scelta di essere se stesse e non come vorrebbero i loro fidanzatini, i loro compagni, i loro mariti o ex mariti/compagni. Questi carnefici che uccidendo “per amore”, si sentono nobilitati: è, questo, un tema profondamente radicato nella letteratura nostrana.
Le donne uccise dagli uomini sono vittime due volte. Prima dai mariti, dai compagni e dagli ex fidanzati che le ammazzano, poi della cronaca giornalistica che racconta gli omicidi: i giornali riducono le vittime a corpi sanguinanti, mentre indugiano sulle motivazioni dei carnefici. Lo dimostrano i titoli dei quotidiani: “Ha ucciso per rabbia” “Ammazza la moglie in un raptus di gelosia». “Disoccupato spara alla ex” “Si era rifatta una vita, doveva pagare”.
Altri esempi nel campo della letteratura, musica: Otello che soffoca Desdemona, la Carmen di Bizet che viene pugnalata, l’eterea e diafana Pia dei Tolomei .
Da questo brevissimo excursus si evince che a morire sono donne che hanno detto no. Che hanno cioè posto il proprio rifiuto a qualcosa che non desideravano più. In questo senso, il femminicidio è la risposta violenta alla libertà femminile. Invece di comprenderla, gli uomini uccidono le donne che hanno osato abbandonarli o che, in qualche modo, si sono fatte assertive della propria esistenza nella forma della libertà.
Rispondere ai bisogni della società, e, nello stesso tempo, qualche parola o espressione cade in disuso e scompare, come è naturale nel ciclo perenne della vita.
“Se l’italiano ha già la parola omicidio, che indica l’assassinio dell’uomo e della donna, perché creare una parola nuova? Non è inutile?”
La risposta, come spesso càpita, ce la danno i vocabolari. La voce “femmina”viene spiegata cosi: ‘essere umano di sesso femminile, spesso con valore spregiativo’. Badate all’aggettivo “spregiativo”, la soluzione è lì. Il “femminicidio”indica l’assassinio legato a un atteggiamento culturale ributtante, di chi considera la moglie, la compagna, l’amica, la donna incontrata casualmente, non un essere umano di pari dignità e di pari diritti, ma un oggetto di cui si è proprietari; se la proprietà viene negata, se un altro maschio si avvicina all’oggetto che si ritiene proprio, scatta la violenza cieca.
Anna Silvia Angelini